Perché la Libia mi preoccupa di più

Edoardo Riccio
5 min readJan 11, 2020

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Una crisi regionale ai confini con l’Europa è più rischiosa di una globale

Questi giorni di inizio 2020 sono caratterizzati da due crisi mediorientali distinte, quella iraniana e quella libica, che hanno origini e natura diversa e comportano rischi di portata altrettanto differente.

La crisi iraniana nasce dalla guerra “soft” dell’Iran con Israele e gli USA, che di fatto si protrae dal 1979. Fin dagli albori, l’ambizione del regime di Teheran è stata quella di cacciare gli Americani dal Medio Oriente, distruggere Israele e con essi tutti i loro alleati. Il contrasto religioso tra sunniti e sciiti, di cui sovente si parla, ha sì una matrice storica ma in realtà, in era moderna, altro non è che il conflitto tra Iran e Paesi del Golfo, storici alleati degli Stati Uniti. A causa dei gravi errori commessi dalle amministrazioni Bush (invasione dell’Iraq, smantellamento del partito Baath e delle forze armate di Saddam) e Obama (ritiro dall’Iraq, supporto ai rivoluzionari siriani), l’Iran ha avuto buon gioco ad aumentare di molto la propria area di influenza squilibrando di fatto il “balance of power” della regione: la mezzaluna sciita che va dal Libano alle aree dello Yemen controllate dalle forze Houthi passando per Siria ed Iraq, lambisce Israele e accerchia i Paesi GCC. Inoltre consente, in potenza, di avere una presenza nel golfo dell’Oman e a Bab el-Mandeb, il piccolo tratto di mare tra Gibuti e Yemen, all’ingresso del Mar Rosso. L’accordo sul nucleare, al di là del merito, di fatto sanciva l’accettazione di questa situazione da parte degli Stati Uniti ed era visto come un mezzo tradimento dai loro alleati storici. Sono personalmente dell’avviso che questa situazione di squilibrio non avrebbe potuto durare nel tempo senza portare a un inasprimento delle tensioni nella regione, inclusa una guerra aperta di portata catastrofica per l’economia mondiale. Ritengo pertanto che il cambiamento di paradigma dell’Amministrazione Trump sia stato più che giustificato, avendo come obiettivo un nuovo accordo che ricomprendesse anche una revisione della postura iraniana in Medio Oriente e alcuni programmi militari (missili). Gli Ayatollah sono consci della loro debolezza, la guerra economica messa in atto dagli Stati Uniti sta funzionando e il regime si trova ora di fronte a due sole possibilità: fare macchina indietro e risedersi al tavolo, oppure persistere con il rischio che le sanzioni portino ad una rivoluzione. In questo contesto Soleimani rappresentava un personaggio particolarmente carismatico, vitale per la Guida Suprema e, in quanto primo artefice della politica espansionistica del Paese, serio ostacolo per una nuova trattativa. Non escludo quindi che, al di là del mero effetto deterrente della sua uccisione, la sua uscita di scena rappresenti un sospiro di sollievo per alcuni esponenti del regime. La stessa anziana Guida Suprema ne esce indebolita e non è improbabile che oggi sia divenuto più forte il partito che, per salvare il proprio potere interno, è disposto a rinegoziare. D’altra parte l’Iran sa che, in caso di guerra, non potrebbe contare sul supporto di nessuno. Non della Russia, intenta a giocare altre partite, e non sicuramente della Cina che, avida di greggio, non potrebbe tollerare una crisi petrolifera determinata da attacchi a pozzi, raffinerie e petroliere saudite. Tuttalpiù si potrebbe ripetere uno scenario iraqeno, con il regime spazzato via in breve tempo e un lungo Vietnam per gli Americani. Ma il regime ne uscirebbe comunque sconfitto. E’ per questo che sono ragionevolmente convinto che, a meno di episodi non voluti, non ci sarà escalation. Viste le divisioni negli Stati Uniti, il regime tergiverserà fino alle elezioni di Novembre nella speranza di vittoria del candidato democratico. Poi, in caso di vittoria di Trump, verranno riaperti i negoziati.

In Libia invece la situazione è potenzialmente più incerta e pericolosa per Italiani ed Europei. Quello tra Sarraj e Haftar rispecchia un conflitto diffuso in tutto il mondo arabo sunnita tra Fratellanza Musulmana da una parte e regimi laici e monarchie, in primis del Golfo, dall’altra. La Turchia, governata da un partito a forte matrice islamista, è da sempre vicina alla Fratellanza e sfrutta questa vicinanza per espandere la propria area di influenza. Viceversa Paesi come l’Egitto (Sisi è al potere grazie a un coup militare contro il governo targato Fratellanza di Morsi), l’Arabia Saudita e gli Emirati non possono tollerare che la Fratellanza conquisti il potere né in Libia né altrove. In uno scenario di questo tipo, vedo come pericolosissimo il fatto che la Turchia abbia schierato le sue forze sul terreno a supporto di Sarraj. Qualora infatti, per contrastare Haftar, le stesse venissero massicciamente impiegate in azioni di combattimento, sarebbe altamente probabile una discesa in campo diretta da parte degli altri Paesi suddetti e la guerra acquisirebbe una portata notevole. Al riguardo non vedo nella Russia un contraltare affidabile. La Russia non ha vitali interessi in gioco in Libia, ma li ha nel Mediterraneo Orientale. Pertanto non si opporrà mai nettamente alla Turchia, con la quale al limite userà le sue atout come pendine di scambio. Infine una guerra di questo tipo non avrebbe ripercussioni globali: poco o nessun interesse per gli USA, poco o nessun interesse per la Cina. Sarebbe quindi una guerra sostanzialmente regionale che verrebbe lasciata al suo corso, con gravi conseguenze per i soli Europei: emergenze umanitarie, migrazioni, infiltrazioni terroristiche.

In estrema sintesi una guerra con l’Iran non converrebbe proprio a nessuno, sprofonderebbe il mondo in una crisi petrolifera ed economica, sarebbe un inferno per gli Americani e rappresenterebbe la fine del regime di Teheran. Gli Stati Uniti hanno non solo dato un segnale deterrente forte, ma hanno eliminato forse il nemico più scomodo. Un’escalation è dunque molto meno probabile di una normalizzazione delle relazioni. In Libia, invece, la situazione non si tranquillizzerà se non con il ritorno, difficile, a una situazione “Gheddafiana”, ovvero con a) una Libia riunificata e b) un regime laico non democratico. Una transizione democratica avvantaggerebbe infatti l’ascesa della Fratellanza e questo non sarebbe accettabile da parte di Emirati, Arabia ed Egitto. D’altra parte la soluzione “gheddafiana” sarebbe una sconfitta con la Turchia e ne comporterebbe inevitabilmente una ritirata, cosa alquanto improbabile. Ne consegue, a mio avviso, che la situazione di turbolenza durerà a lungo con conseguenze gravi soprattutto per noi.

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Edoardo Riccio

Entrepreneur, Solution Enabler, with strong passion for politics, geopolitics, history, economics and business