Gli anziani che rubano il futuro ai giovani è la bufala del secolo

Edoardo Riccio
4 min readOct 24, 2019

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Una narrativa molto diffusa e con molto poco senso

Negli ultimi tempi sta diventando di moda parlare degli anziani come di persone non solo inutili per la società, ma al tempo stesso così dannose per il futuro dei giovani che occorrerebbe, a seconda delle preferenze degli uni e degli altri, toglier loro il diritto di voto, pesarlo meno rispetto a quello dei genitori di figli piccoli o, quanto meno, controbilanciarlo consentendo anche ai ragazzini di votare.

Una delle principali cause di questo dibattito è l’annoso tema delle pensioni in virtù delle quali risorse che sarebbero utili per abbattere debito, aumentare spesa in Education e Sanità o tagliare la tassazione sul lavoro vengono sperperate per dare da mangiare a “vecchi rincretiniti” o “diversamente giovani gaudenti” (mia personale trasposizione del dibattito). Premetto: sono ben lontano dall’età pensionabile e sospetto che non vedrò pensione. Per cui non ho conflitti di interesse.

Se potessimo tornare alle origini della previdenza sociale (il famoso senno di poi), non vi è il minimo dubbio che tutti opterebbero per un sistema a capitalizzazione. Una sorta di risparmio obbligatorio vincolato in un conto individuale come per gli attuali fondi complementari. Ognuno potrebbe andare in pensione quando crede ottenendo una rendita annua calcolata; attuarialmente, in funzione dell’aspettativa di vita e del montante effettivamente accumulato. Non si porrebbe la questione della pensione di reversibilità a mogli, conviventi, amanti di qualsiasi genere: al momento del pensionamento ci sarebbe solo da decidere se sottoscrivere una rendita individuale (più elevata) o su due teste (meno elevata). Full stop, nessun conflitto generazionale, nessun giovane che “paga” per le pensioni e che viene “derubato del futuro”.

Al contrario, in tutti i Paesi la previdenza è stata concepita secondo un sistema a ripartizione. Ovvero secondo un sistema in virtù del quale si fissano età pensionabile e modalità di calcolo della pensione, che viene poi pagata dalla popolazione attiva. La logica originaria era che, da un lato occorreva avviare l’erogazione delle pensioni immediatamente (quindi a una generazione che non aveva accantonato nulla), dall’altro gli andamenti demografici, occupazionali e di produttività erano tali da far supporre una sostenibilità del meccanismo nel tempo.

Di fatto si tratta dunque di un sistema che somiglia molto più a una forma di assicurazione sociale che a una forma di risparmio forzoso. Nemmeno l’introduzione del sistema contributivo ha cambiato la natura del meccanismo: si è solo abbassata la prestazione pensionistica “promessa” agganciandola ai contributi versati piuttosto che alla retribuzione degli ultimi anni di vita lavorativa.

I sistemi a ripartizione sono entrati in crisi perché a un certo punto sono venute meno le condizioni occupazionali e demografiche che ne erano il presupposto, non perché gli anziani vivano, a sbafo, da nababbi. I dati Istat per l’Italia ci dicono, tra le altre cose, che:

  • i pensionati tra il 2008 e il 2017 sono calati di circa 800.000 unità. Sono dunque meno nonostante l’aumento dell’aspettativa di vita, segno che le riforme Dini e Fornero hanno funzionato;
  • la pensione lorda media è di circa 18.000 Euro/ anno, 1.500 Euro mese (14.000 netti). Si tratta quindi di pensioni che, giustificate o meno da contributi versati, non consentono lussi sfrenati (le poche famose pensioni d’oro sono compensate da minime da fame);
  • solo un quarto dei pensionati è diplomato, ergo chi si ritira ha spesso competenze non adeguate a una economia avanzata. Al riguardo, i primi dati su Quota 100 confermano che il tasso di sostituzione dei nuovi pensionati è basso e che, dunque, si tratta di “costi rinunciabili” da parte delle aziende (al netto di blocchi di turnover in alcuni settori della PA).

Nello stesso tempo abbiamo tassi di disoccupazione nell’ordine del 10% che salgono a oltre 30% per i giovani. Il problema sono dunque gli anziani? Gli anziani che dovrebbero lavorare più a lungo anche quando ipoteticamente ci sarebbe chi potrebbe rimpiazzarli adeguatamente? O forse semplicemente il problema sta nel fatto che i giovani non hanno oggi le competenze che la “nuova economia” richiede? Pensiamo per un attimo se ognuno di quei giovani disoccupati fosse in grado di produrre un PIL pro-capite pari a quello generato dalla media degli occupati: a quanto ammonterebbe la spesa per pensioni su PIL? Certo qualcuno sostiene che prolungando la vita lavorativa potremmo abbassare la pressione fiscale su lavoro e imprese, ma anche lavoratori non produttivi che rimangono in azienda sono un costo inutile, una tassa. Altri sostengono che potremmo aumentare la vita lavorativa e finanziare maggiore spesa per la scuola, ma manterremmo costi impropri a carico delle aziende (la famosa minore produttività) per finanziare una formazione, sacrosanta, che genererà risorse produttive tra 10 o 20 anni. No, il problema, non sono gli anziani. La spesa pensionistica su PIL è alta perché è basso il PIL e in particolare perché non riusciamo a inserire i giovani nel mondo del lavoro rendendoli produttivi. Se vogliamo esser duri e crudi, il problema non sono gli anziani che hanno lavorato e hanno mantenuto gli attuali giovani quando erano piccoli (non solo fisicamente ma anche pagando laute tasse) e i pensionati dei loro tempi. Il problema sono i giovani che, con o senza colpa, non sono in grado oggi di svolgere il ruolo sociale che gli anziani avevano svolto da giovani. Pensare che debbano essere gli anziani a continuare a tirare la carretta mentre i giovani non trovano lavoro è controintuitivo e illogico, specialmente in un mondo che cambia rapidamente e in cui le vecchie professioni diventano obsolete.

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Edoardo Riccio

Entrepreneur, Solution Enabler, with strong passion for politics, geopolitics, history, economics and business